Un magnifico catalogo e l’ultimo weekend di visita offrono al pubblico la mostra «Storie di pietra, 200 capolavori da Guido Reni a Damien Hirst passando per Rodin e Picasso»(13.10.2023-14.01.2024) a Villa Medici, a cura del direttore dell’Accademia di Francia a Roma Sam Stourdzé e dello storico dell’arte Jean de Loisy, realizzata con il sostegno di Van Cleef & Arpels, sponsor principale e già promotore del restauro della collezione di cristalli di Roger Caillois (1913-1978), scrittore surrealista cui è ispirato l’allestimento. «Le pietre hanno attirato l’interesse dell’uomo in ogni tempo» – scriveva Caillois in L’écriture des pierre (1970) – «per l’evocazione di una somiglianza, per la loro natura compiuta, una bellezza finita, diversa dalla perfezione e anche dalla creazione dell’opera d’arte», quale elaborato successivo al pensiero dell’uomo. Infatti, esse esistono originariamente, come i fossili e le conchiglie, e «possiedono una bellezza che l’uomo può solo congetturare» e riconoscere nei minerali, erroneamente ascritti al mondo inanimato, poiché non solo evocano altri organismi – «cespugli aghiformi di quarzo, oscure caverne di geodi di ametista, lastre d’agata di rodocrosite o di variscite segate e levigate, cristalli di fluorite, masse dorate e poligonali delle piriti, curve semplici, non lavorate, appena incise o abbozzate, di diaspro, di malachite, di lapislazzuli, oppure tale o tal altra pietra dura dalle tinte vivaci, dalle vene armoniose» – ma custodiscono un valore commisurato a «peso, rarità, lavorazione, alterazioni per influsso di depositi, forma acquisita per l’erosione o la spaccatura, o riconoscibilità di un disegno imprevedibile, con somiglianze inattese e analogie che richiamano miniature, non di mano umana». Ne sono prova le trasparenze di certi cristalli, abitate da muschi, erbe o rami con fiori o frutti; o di certe agate, attraversate dall’immagine di uno o più alberi, uniti in un bosco, una foresta o un paesaggio. E persino su un lacerto lapideo o su un blocco di marmo si possono scorgere «i lampi e le nuvole di una tempesta, …oppure un eroe nell’atto di affrontare un drago; o un mare immenso sul quale fuggono navi, simili a quella che il Romano vide riflessa negli occhi di una regina d’Oriente già decisa a tradirlo». È un’interpretazione simbolista e viva dell’inanimato, che lo scrittore francese sa di potere condividere con personaggi storici del passato, dall’antichità al Medioevo fino all’età moderna di principi e banchieri, passando per Gaffarel, bibliotecario di Richelieu ed elemosiniere del Re, autore di un trattato sulle gemme, intese come talismani naturali in grado di guarire dalle malattie. A detta di Caillois, «Non esiste in realtà né essere, né oggetto, né mostro, né monumento, né evento, né spettacolo della natura, della storia, della favola o del sogno, nulla di cui uno sguardo incantato non possa intuire l’immagine dentro le chiazze, nei disegni, nei profili delle pietre».
L’articolazione delle sezioni propone al visitatore la prima chiave interpretativa per risalire al potere simbolico delle pietre, a partire dall’installazione Ricochet di Hugues Reip (1964) nell’antica cisterna di Villa Medici, con l’effetto visivo delle gocce solidificate intorno a un sasso in caduta libera, a rappresentare il rapporto dell’edificio con l’acquedotto dell’Acqua Vergine. La sezione «Dei minerali che sono sempre restati all’aperto» presenta l’indagine antropomorfa e zoomorfa sui cristalli della collezione Caillois, e la capacità di evocazione concettuale di una serie di minerali: tra uno zircone preistorico australiano e i cristalli di caverna in Je suis une caverne di Evariste Richer (1969), costituitisi ciascuno in diecimila anni e raccolti in un cucchiaio d’argento, colpiscono il dagherrotipo Conchiglie di Louis Daguerre (1787-1851), una natura morta di fossili consegnati all’osservatore, dopo un lungo tempo di formazione naturale e poi di esposizione allo scatto; la coppia di stampe Evaporite di Dove Allouche (1972), dal nome della roccia originata per evaporazione in mari chiusi e per disidratazione divenuta gesso, di cui si propongono i negativi delle foto di due lamine sottili e polarizzate, evidenziandone i cristalli millenari all’interno; e infine La pensée, Portrait de Camille Claudel di Auguste Rodin (1840-1917), in cui le forme plastiche della giovane donna – scultrice di talento e sua amante, internata in manicomio per volontà della famiglia – emergono parzialmente dal blocco di marmo, quasi la pietra la inghiottisse e trattenesse, anticipandone la tragica fine. Le sale de «L’architetto avaro dei cristalli» evidenziano la riflessione di Caillois sulla perfezione del cristallo quale elemento modulare di perfezione e contenuto: così è per i Modelli di cristalli di Jean-Baptiste Louis Romé de l’Isle (1736-1790), padre della cristallografia e autore di questi esemplari tridimensionali in terracotta, maneggevoli da studiare; e per il dipinto La via del Genio di Wenzel Hablik (1881-1934), in cui il cristallo è l’unita di misura del paesaggio montuoso di cime aguzze, attraverso cui l’uomo ascende alla trasparenza della Gerusalemme celeste, in una soluzione grafica dall’eco cubista, come attesta il raffronto alla tela Le Sacre-Coeur di Pablo Picasso (1881-1973) in esposizione. La sezione «Le pietre con forme» evidenzia la potenza poietica dei minerali, attraverso esempi nello spazio e nel tempo. Di grande effetto è il ritratto del Ciottolo di Makapansgat di Pieter Hugo (1976), l’omonima giada rossa antropomorfa, trovata nel 1925 accanto ai resti di un australopiteco in un’area del Sudafrica estranea geologicamente a quel minerale, che ha indotto gli studiosi a teorizzare che sia stata raccolta altrove e conservata, come un oggetto di legame simbolico. Nelle sale attigue appaiono le immagini del Palais Ideal du Facteur Cheval a Hauterives, costruito dal postino Joseph-Ferdinand Cheval (1836-1924) da autodidatta, legando con calce pietre dalle forme particolari raccolte nei turni di lavoro, di ispirazione per i surrealisti e oggi monumento nazionale; gli acquerelli di George Sand (1804-1876), realizzati attraverso la tecnica dell’ «acquerello schiacciato» o della «dendrite», minerale caratterizzato da tracce simili a impronte fossili, ricreate dall’artista gettando il colore sulla carta, schiacciandolo ancora umido con un foglio Bristol e ridisegnando a piacimento sulla trama ramificata, ricavata dall’impatto; la Presa di Gerusalemme di Antonio Tempesta (1555-1630), dipinto su pietra paesina, sfruttando le stratificazioni sedimentarie del minerale per la composizione miniaturistica dei piani del paesaggio e dei personaggi; e La Danzatrice, una rocher de lettré, uno di quei minerali dalla forma evocativa, che gli intellettuali cinesi fino al XVII secolo raccoglievano come capolavori della natura, contemplandoli e commentandoli, mentre praticavano le arti, la poesia, la calligrafia e la pittura. Nella sezione «Alcune pietre sono divine», la funzione simbolica della pietra attraversa le religioni e le espressioni del culto fino ai riflessi sulla società: accanto alla Testa di Cristo del XVI sec., ritrovata in una discarica di Trastevere negli anni ’90, figurano il prezioso Reliquario del VI sec. in legno e oro, conforme all’usanza dei pellegrini di portare pietre dalla Terra Santa; la pagina miniata del Raudat as-Safa dello storico persiano Mir Havand, con scene alle origini dell’Islam e la raffigurazione della Pietra Nera; un’antica Statua di Mithra (II d.C.), il dio nato dalla pietra; il Sogno di Giacobbe nelle tele di Giorgio Vasari (1511-1574) e di Gioacchino Assereto (1600-1649), con la leggenda del «cuscino di Giacobbe» o «Pietra di Scone», consacrata nel luogo dove sarebbe sorto il Tempio di Gerusalemme, portata in Egitto, Irlanda, Scozia e infine in Inghilterra, a Westminster, dove è tuttora oggetto rituale durante l’ascesa al trono del nuovo sovrano, come raffigurato nella litografia La sedia dell’Incoronazione (1937).
Si riconduce a una valenza soprannaturale anche la sezione «Contrizione», in cui le pietre partecipano all’esperienza di pentimento, espiazione e perdono. Tra le numerose opere esposte – quali quelle ispirate a Sant’Agatone, eremita nel deserto per tre anni con una pietra in bocca per imparare il silenzio, e il documentario Il Giardino delle Pietre (1976) di Parviz Kimiavi, sull’architettura di rocce e alberi creata dal pastore iraniano Dervish Khan – a richiamare l’attenzione è la serie Confessione 1, 2 e 14 di Rose Salane (1992), fotografie che raccontano la restituzione a mezzo posta di reperti archeologici, trafugati da turisti in visita al sito. La giovane artista sceglie di ritrarre insieme il piccolo contenitore recante il materiale asportato – pietre, sassolini, terra – e la relativa lettera di scuse scritta a mano, dando risalto alla drammaticità partecipata del gesto di riconsegna, in una modalità riproposta in questi giorni anche dalla cronaca nazionale, e innescata dalla leggenda di una presunta maledizione anziché dall’osservanza della legge a tutela dei beni culturali.
Tra le sezioni conclusive, si segnalano «Pietre ribelli», dedicata all’accezione della pietra quale arma e strumento di rivendicazione, dall’utilizzo dell’ossidiana nella caccia preistorica al lancio in contesti di ribellione sociale, come nelle foto storiche dei fatti di Parigi, nel maggio del 1968. L’opera più interessante è Davide che tiene la testa di Golia di Guido Reni (1575-1642), tela monumentale in prestito dal Museo del Louvre, che ripercorre l’epilogo del racconto dell’Antico Testamento. Infine, «Pietre d’allarme» apre la riflessione dello spettatore alla creazione di nuovi minerali e alla loro valenza comunicativa, tra passato e futuro. Sono raccolti qui la Sentimentite di Agnieszka Kurant (1978), ricavata dalla polverizzazione di circa sessanta oggetti dell’antichità, che l’artista propone come valuta ibrida – in parte materiale, in parte digitale, attraverso metadati raccolti da reazioni online a eventi critici per l’umanità – alternativa all’oro, in un futuro distopico; la Trinitite, generata dalla vitrificazione delle sabbie del deserto mescolate al rame, in occasione dell’esperimento nucleare di Almogordo (Nuovo Messico) nel 1945; la Fordite (o Agata di Detroit), uno scarto di lavorazione delle vernici automobilistiche degli anni ’40, accumulate e indurite sui macchinari, divenuto raro per l’introduzione di un nuovo processo elettrostatico di fissazione del colore, e riutilizzato dal design e dalla manifattura gioielliera. Dialogano con le criticità del tempo la Pietra della Fame di Schonebeck (XVIII sec.), ad attestare l’uso di collocare lapidi incise sul fondale dei fiumi per segnalare il livello dell’acqua e le temute carestie; e Hour Glass di Kapwani Kiwanga (1978), una gigantesca clessidra dalle cavità non comunicanti e contenenti fracking sand, la sabbia silicea utilizzata dall’industria estrattiva, quale prova dell’impatto dell’uomo sul tempo del pianeta. A concludere l’esposizione nel segno di un messaggio di speranza è la tavola San Galgano di Domenico Di Pace detto il Beccafumi (1484-1551): il ritratto coglie il cavaliere convertito, pronto a rinunciare alla mondanità e ad abbracciare la vita penitente, spezzando la propria spada, che resta infissa nella roccia – sotto la cupola della cappella di San Galgano a Montesiepi, in Toscana, dove si trova tuttora – in un prodigio contrario alle saghe cavalleresche, come un miracolo di pace.