È stato tutto molto bello

Ho un passato miserando da giornalista di provincia. La mia carriera si chiuse un giorno di una ventina di anni fa, quando il direttore del quindicinale per cui scrivevo mi comunica che c’è da coprire la notizia di Bruno Pizzul a Ragusa.
Pizzul in quell’anno è da poco in pensione o, comunque, ha smesso di commentare la Nazionale. Il suo processo di monumentalizzazione è all’apice, sostenuto dai rimpianti per le sue telecronache pastose, condotte come sorseggiando uno di quei vini di cui era intenditore, il culto di noi giovani per alcune espressioni che sono nel nostro gergo amicale (“è tutto molto bello” “giocano bene questi”), la simpatia umana per quegli anni di carriera che hanno accompagnato le più cocenti delusione dell’Italia calcistica, più volte a un passo da una vittoria mai condotta in porto.
In quell’anno Pizzul è a Ragusa come testimonial di un’iniziativa per la salute nello sport e ci aspetta per un’intervista al palazzetto. Mi accompagnano il direttore e mio fratello, che era una specie di capo redattore del giornale. La decisione, su cui sospetto qualche malizia, è che sia io a realizzare l’intervista. Fino a quel momento avevo maneggiato al massimo consiglieri comunali, centravanti di Promozione e l’opinione della gente della strada (allora si usava). Sono chiaramente nel panico.
Stranamente non penso alle domande da porre, ma coltivo il desiderio di essere all’altezza dei suoi aggettivi vaporosi, del ritmo seducente che riusciva a dare alle telecronache, delle sue espressioni rotonde da sommelier del giornalismo. Chissà se riuscirò a dirgli che l’ho sentito come un amico.
Al palazzetto dello sport un enorme striscione si srotola per metà tribuna con il motto: “LO SPORT E’ SALUTE, LA SALUTE E’ SPORT” o qualcosa di ugualmente dimenticabile. Chi non andrà mai via dalla mia memoria è, invece, l’uomo alto e rilassato, solidamente ancorato alla sua personalità. È impegnato in un’amabile conversazione con un organizzatore della manifestazione e in una dialettica tra labbra e dita con una sigaretta che solleva voluttuose spire impegnate in scartavetrate di precisione sulle ben note corde vocali. È un uomo al timone di sé stesso. È Bruno Pizzul.
A quel punto io sono completamente groggy (avrà mai commentato il pugilato, Bruno Pizzul?) e con l’aggressività involontaria che si impossessa spesso dei timidi, quando hanno bisogno di darsi coraggio, dopo rapide presentazioni gli sparo: “Ma come dottor Pizzul, è il testimonial di una campagna sulla salute e sta fumando?”
Sugli altri non ho un opinione precisa, ma il dio del giornalismo non esiste perché non arrivò nessuna folgore a incenerirmi all’istante.
Successe invece una cosa che oggi corregge in commozione il dispiacere per la sua morte. Tradendo un po’ di imbarazzo Bruno Pizzul, invece di mandarmi a quel paese, mi rispose che avevo ragione, confessò quella sua debolezza, quasi si scusò. Nel frattempo io mi ero rimpicciolito alle dimensioni di una Marlboro e di passare alla seconda domanda non se ne parlava. Mi ero bloccato per sempre sull’idea che avevo rimproverato Bruno Pizzul e fui incapace di formulare qualsiasi altro pensiero.
Intervennero il direttore e mio fratello con le domande giuste: “Qual è stata la partita più bella che ha commentato, quella che avrebbe voluto commentare, il giocatore più simpatico, cosa ricorda di quando giocava al Catania etc..)
Ho quindi molti debiti d’affetto con Bruno Pizzul che mi consolò di un gol di Trezeguet all’ultimo minuto, che si prese la responsabilità di precipitare nello sconforto i tifosi di calcio nella sera dell’Heysel, che urlò: “Schillaci!” con milioni di connazionali in estati ormai lontane, per quanto magiche. E con garbo ed umiltà mi ha regalato anche un’ultima vanteria, perché è grazie a Bruno Pizzul che non sono diventato un giornalista.

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