Concluso il Mondiale di Rugby 2023, durato 1 mese e 20 giorni, proviamo commentarne gli aspetti più importanti. Innanzitutto bisogna dire che il rugby è cambiato moltissimo in questi anni, tanto da essere definito “un altro sport” da chi lo ha vissuto e giocato nelle decadi precedenti. Il cambiamento del regolamento aveva 2 obiettivi: maggiore spettacolarità e tutela della salute dei giocatori. Entrambi sono stati a mio avviso raggiunti. Il 50/22 offre più opportunità agli attacchi, i cartellini sui placcaggi alti sono un efficace deterrente contro ogni scorrettezza. Qualcuno fa osservare che, così facendo, il rugby si sia un po’ “calcificato”, in quanto il giocatore colpito tende a ingigantire le conseguenze di un placcaggio alto nella consapevolezza che un cartellino all’avversario aiuterà la sua squadra. Un aspetto, questo, che è lontano anni luce dal romanticismo epico di Alun Wyn Jones; il quale, colpito alto, chiedeva all’arbitro di non punire l’avversario. Altri tempi, tempi eroici, e un po’ di magone è inevitabile, anche in considerazione del ritiro ormai prossimo di questo meraviglioso n° 8 gallese. Ma se il fine ultimo è la salute dei giocatori in campo che ben venga tutto questo. È un po’ come il discorso razzismo. Mbonambi è stato messo in croce per aver detto “bianco fighetto” all’inglese Tom Curry, episodio a mio avviso ridicolo. A quanto pare la frase in inglese “white cunt” corrisponde all’afrikaans “Watter kant/quale lato?” detto all’interno della mischia (nessuna sanzione per la mancanza di prove audio sufficienti), tutto onestamente un po’ esagerato ma se il fine ultimo è estirpare del tutto ogni forma di discriminazione sul campo, che ben vengano, a mio avviso, anche queste puntigliosità. World Rugby si accinge ad un cambiamento organizzativo radicale, più inclusivo a livello economico e di partecipazione (mini-allargamento delle squadre ai mondiali, Nations Cup con promozioni e retrocessioni). Questa nuova normativa non piace a tutti, ci sono squadre che sono state molto critiche perché lamentano una mancanza di opportunità per loro. Speriamo comunque che in questo nuovo quadro organizzativo si possano evitare in futuro errori di valutazione come quelli visti in questi mondiali. Mi riferisco all’assurda composizione dei gironi, fatta seguendo il ranking di 4 anni fa. Nel frattempo è cambiato praticamente il mondo e le 4 squadre più forti si sono dovute scontrare prima nei gironi e poi nei quarti di finale (nel “weekend rugbistico più spettacolare della storia”, come è stato definito dai più) piuttosto che in fondo al torneo.

Cosa non mi è piaciuto in questi mondiali di rugby

  1. Sicuramente la composizione dei gironi, come accennato prima. Ha creato una evidente disparità di trattamento e di opportunità;
  2. Capitan Owen Farrell. Migliorato moltissimo al piede, praticamente perfetto, resta uno dei giocatori più scorretti di tutti i tempi. Dei suoi placcaggi di spalle, delle sue reazioni scomposte, dei suoi interventi alti il web è colmo, basta fare una piccola ricerca. Anche in questi mondiali non ha “deluso” le aspettative, causando tra l’altro con le sue proteste la punizione rivelatasi poi decisiva per il Sudafrica. Davvero non ci si spiega come l’Inghilterra si ostini non dico ad impiegarlo (perché il talento al piede è indiscutibile) ma a tenerlo come capitano. Il capitano, nel rugby, ha un ruolo molto importante tecnicamente ed eticamente. E pensare che un tempo quel ruolo era tenuto da Lawrence Dallaglio….
  3. I fischi dei tifosi francesi. Agli avversari, agli arbitri, durante i piazzati. Attenzione a non ritenere scontati e acquisiti i nostri valori, perché nulla è mai scontato e acquisito;
  4. Le lamentele delle squadre perdenti contro gli arbitraggi. È vero, ci sono stati degli errori. Ma si è un po’ esagerato con i piagnistei. Ricordo tra gli altri l’atteggiamento fastidioso degli uruguaiani contro l’Italia.

L’Italia, ricordiamolo, ad un certo punto della partita, ha giocato in 13 per due gialli discutibili che hanno, di fatto, permesso all’Uruguay di sopravanzarci nel punteggio. Poi un giallo uruguaiano ci ha consentito di riprendere in mano la situazione, ma la squadra albiceleste ha avuto un atteggiamento che non mi è piaciuto per niente. Si potrebbe comunque consultare di più il TMO nei falli commessi sui punti di incontro e nei fuorigioco, dando comunicazione tempestiva e veloce all’arbitro. Le partite di alto livello stanno acquistando una velocità da far girare la testa agli spettatori ed ai telecronisti, figuriamoci agli arbitri;

  • infine non mi è piaciuto il “totale disastro cacofonico”, come è stato definito, degli inni cantati da cori di bambini. Viva la partecipazione dei bambini, per carità, ma è stata distrutta durante tutta la prima fase l’irrinunciabile pathos del prepartita. Per fortuna c’è stato poi un passo indietro mantenendo il contributo corale però in un contesto musicale predefinito che ha reso il tutto più presentabile;

Cosa mi è piaciuto di questi Mondiali di Rugby

  1. Nuova Zelanda, che dire? Chapeau. Non solo grande rugby, ma grande rugby proposto con divertimento, leggerezza, gioia. Facendo le cose più straordinarie con la naturalezza dei gesti istintivi della vita: bere, respirare, mangiare, fare l’amore, camminare, correre, giocare al rugby. Scelgo un’immagine a sintetizzare tutto questo. Aaron Smith sorridente e sereno in panca puniti durante la partita più dura e difficile, contro l’Irlanda, dopo aver preso un giallo che poteva starci ma poteva anche essere contestabile. Ebbene, via in panca senza fiatare, e ci va sorridendo: “non fa nulla, tra 10 minuti torno in campo a divertirmi”. La Nuova Zelanda ha battuto la n° 1 del ranking mondiale giocando 20 minuti complessivi in inferiorità numerica (per via di due cartellini gialli) e stando sempre davanti. Ha certamente faticato perché l’Irlanda è una grandissima squadra che ha dato tutto quello che aveva. Ma gli All Blacks non si sono mai scomposti ed

hanno avuto la meglio sapendo sempre che cosa fare, in tutti i momenti della partita, compresa quella incredibile resistenza all’altrettanto incredibile ed eroico attacco finale irlandese con 37 fasi consecutive, l’azione più lunga della storia. In finale arriva una sconfitta per un solo punto di differenza dopo un’intera partita giocata in inferiorità numerica. Un calcio sbagliato fa la differenza tra la vittoria e la sconfitta ma non toglie nulla all’onore di questi splendidi atleti;

  • La squadra delle Fiji. Folli, geniali, ingenui, genuini. Non sai mai cosa aspettarti da loro: un rosso diretto per un intervento scomposto o un sottomano degno di uno spettacolo di illusionismo; una vittoria storica contro l’Australia ed una sconfitta nella partita decisiva contro il Portogallo (prima vittoria della storia rugbistica lusitana, qualificazione fijiana salva grazie al bonus difensivo), infine il capolavoro sfiorato nei quarti di finale contro l’Inghilterra, con gli isolani in partita fino all’ultimo secondo;
  • Sudafrica, il trionfo della resilienza. Parola, quest’ultima, spesso abusata ma mi sembra ideale per definire il mondiale degli Springboks. Capaci di adattarsi, di reagire agli impressionanti assalti francesi durante il primo tempo dei quarti; ribattendo colpo su colpo per poi assestare il montante decisivo non appena la stanchezza ha travolto i transalpini. E resilienza è secondo me la parola più adatta a descrivere la partita di semifinale contro l’Inghilterra. Una partita disastrosa. Una partita nella quale, travolti dalla stanchezza per il match contro la Francia, non gli riesce nulla, neanche i gesti tecnici più banali, bagnati oltretutto da una pioggia battente che rende tutto scivoloso e ancora più difficile. E allora cosa fa il Sudafrica? Innanzitutto una serie di cambi azzeccatissimi (la cosiddetta “bomb squad”). Provando e riprovando ritrova la mischia nel secondo tempo, unico fondamentale produttivo. Bene, allora sfrutta l’unica cosa che funziona, anche all’interno dei propri 22. Pian piano prende fiducia anche nella touche e trova una meta di prepotenza. I calci di Pollard fanno il resto. Dire che il Sudafrica ha vinto questa partita incredibile in soli 10 minuti di gioco efficace non è a mio avviso azzardato. Per vincere 3 partite consecutive di un solo punto, finale compresa, certamente ci vuole un pizzico di fortuna, ma quanta personalità! Il Sudafrica ha puntato molto sulla fisicità ma è ingeneroso, a mio avviso, affermare che il suo gioco sia solo speculativo. In questi anni Bryan Habana, Mapimpi, Kolbe e Willemse ci hanno gratificato con gesti tecnici spettacolari, come Faf de Clerk con le sue “francesine” (due decisive quest’anno contro Francia e Nuova Zelanda). E che dire di Snyman? Un gigante di 206 cm per 117 kg con mani gentili come quelle di Van Gogh. Insomma, gli Springboks non saranno belli da vedere come la Nuova Zelanda o la Francia ma non sono solo picchiatori orbi;
  • L’Irlanda, schierata davanti all’haka neozelandese, ha composto con i suoi 15 giocatori, il numero 8. È il numero 8 di Anthony Foley, giocatore e allenatore del Munster, morto prematuramente nel 2016. Avevano già fatto questa scelta prima di una partita contro gli All Blacks poi vinta dall’Irlanda. Probabilmente speravano di ripetere quell’esito, non è andata bene ma resta il nobile gesto di una squadra che risponde all’haka con una scelta simbolica anch’essa di unità e non di sberleffo o provocazione;
  • l’impresa del Portogallo. Pur non qualificandosi ai prossimi mondiali a causa del 4° posto in classifica, pur col rammarico di una vittoria sfiorata contro la Georgia, i lusitani vanno elogiati per la storica impresa riuscita nell’ultima partita del girone contro le lanciatissime Fiji, che di lì a poco avrebbero fatto venire i sorci verdi niente poco di meno che agli inventori di questo sport. I portoghesi, piacevoli da vedere ma inevitabilmente acerbi sotto molti punti di vista, sono stati accolti trionfalmente in aeroporto al rientro in patria. Quelle immagini di gioia incontenibile e di entusiasmo delirante per una squadra comunque eliminata dal torneo mi fanno bene al cuore e mi riportano alla vera essenza di questo sport meraviglioso;
  • l’atmosfera sugli spalti è stata come sempre deliziosa. Le solite immagini del rugby: tifoserie mischiate, brindisi condivisi, abbracci, clima di festa. Evviva!;

Nella terra di mezzo

  1. La Francia avrebbe meritato la finale. Ha giocato benissimo il girone (a parte forse, contro l’Uruguay), si è trovata un Sudafrica pazzesco ai quarti, ha perso per infortunio i suoi campioni Dupont (che poteva essere tutelato meglio, rientrato per i quarti di finale però non al 100%) e Ntamack (prima dei mondiali). Forse questi sono stati segnali che lasciavano presagire un torneo non proprio baciato dalla dea bendata. Purtroppo le aspettative molto pressanti hanno fatto sì che mancasse la lucidità nei momenti cruciali. Ma essere eliminati per un solo punto vuol dire essere quasi riusciti. E piccoli infinitesimali dettagli hanno fatto la differenza. Trascurabili nella maggior parte dei casi, determinanti quando incontri i colossi più forti della palla ovale.
  2. L’Irlanda ha poco da rimproverarsi. Ha costruito negli anni una squadra meravigliosa, quasi perfetta in ogni fondamentale. Ed è proprio quel “quasi” a fregarti quando incontri gli All Blacks più in forma dell’anno.
  3. A metà strada metto faticosamente, nonostante tutto, anche l’Italia, protagonista di un inizio abbastanza promettente con gioco arioso e a tratti molto spettacolare. Consideriamo poi che l’Uruguay, da noi battuto, ha messo in seria difficoltà la Francia e persino la Nuova Zelanda nel 1° tempo. Qualche giocatore ha fornito in questa competizione le migliori prestazioni della sua carriera. Mi riferisco soprattutto a Tommaso Allan, cecchino infallibile da qualunque posizione ed abilissimo tatticamente. Non si era mai visto un Allan in questo stato di grazia. Per contro altri hanno deluso e a questi livelli o si gioca tutti ad altissima quota o il castello crolla ancor prima di essere costruito. A mio avviso alcune delle nostre mete sono tra le più belle del torneo in assoluto. Detto ciò, il giudizio non può essere positivo. Conoscevamo le difficoltà del girone ma i

due massacri finali, contro Nuova Zelanda e Francia, sono molto gravi, soprattutto per le proporzioni. E rischiano di compromettere tutto l’entusiasmo che si era creato intorno a questa squadra ed ai miglioramenti nel gioco col coach uscente Crawley;. È proprio per lui che ho voluto inserire l’Italia in questa sorta di limbo. Perché il percorso con quest’allenatore non merita di essere valutato come fallimentare. Sono arrivate vittorie storiche, come quella in Galles al 6 nazioni 2022 o quella contro l’Australia nel test match autunnale, è arrivato un gioco finalmente propositivo, sono stati valorizzati tantissimi giovani (Capuozzo nominato rivelazione dell’anno nel 2022) e il numero di vittorie complessivo riporta a Pierre Berbizier (unico a vantare gli stessi numeri). Ovviamente le speranze azzurre sono state umiliate dagli squadroni Nuova Zelanda e Francia ma non mi sento di buttare tutto al mare. Come ci insegna questo sport bisogna ripartire e andare avanti. Sognando, avendo fiducia in noi stessi, ma al tempo stesso non dimenticando l’umiltà e la consapevolezza di chi si è. Non ha molto senso uscire la lingua durante l’haka (gesto di Capuozzo) per poi prendere una serie interminabile di mazzate. Ancora lontani dall’altissimo livello dobbiamo comunque essere sempre consci di essere i migliori, al momento, di tutte le altre. Un limbo, appunto, dal quale possiamo uscire solo lavorando ancora e ancora e ancora. L’età media è molto giovane, si può senz’altro crescere e intanto, dall’under 20, si stanno proponendo autentici fenomeni, primo fra tutti il mostruoso pilone dalla meta facile Gallorini.

La finalissima Sudafrica – Nuova Zelanda 12-11

Dedico uno spazio a parte alla finalissima del 28 ottobre. La spunta il Sudafrica dopo una partita memorabile per il pathos, il combattimento e l’incertezza. Si parlava prima di resilienza del Sudafrica. Nei 15 titolari c’è un solo giocatore considerato “insostituibile”. È Bongi Mbonambi. Dopo un paio di minuti lo perde per infortunio (causato da una pulizia sconsiderata di Frizell, punito giustamente con un giallo). Entra Fourie, che non è nemmeno un tallonatore di professione, è un adattato al ruolo. Eppure gioca una partita di tutto rispetto in un ruolo non del tutto suo. Già detto del giallo ineccepibile a Frizell, poco dopo il capitano Sam Cane si rende protagonista di un placcaggio alto con impatto sulla testa avversaria. È rosso, le certezze neozelandesi cadono e il Sudafrica sfrutta bene i piazzati con Pollard. Gli All Blacks riprendono in mano la partita con il grande coraggio che li contraddistingue siglando due bellissime mete (una annullata giustamente per un in avanti). Anche perché nel frattempo 2 gialli ai sudafricani riequilibrano numericamente la sfida. Gli Springboks sfiorano una meta con Kolisi ma si affidano prevalentemente alla mischia ed ai calci di Pollard. Restano avanti ma un piazzato di Barrett, a pochi minuti dalla fine, può sigillare il sorpasso. È stato Kolbe a causarlo con un avanti volontario. Il ragazzo esce in lacrime per la conseguente ammonizione, si copre la testa con la maglietta e non la uscirà più fino al fischio finale. La palla del numero 12 neozelandese esce di un niente. Botte da orbi fino alla fine e arriva la seconda coppa del mondo consecutiva, quarta in assoluto, per il Sudafrica di Erasmus, una corazzata costruita sui punti di forza tradizionali e su una solidità psicologica impressionante.

Il 90% degli appassionati di rugby tifavano Nuova Zelanda e anche una parte di me, perché gli All Blacks hanno dato veramente spettacolo in questo mondiale. Però, in finale, purtroppo, gli errori si pagano caro.

I due giocatori simbolo di correttezza

Secondo me due giocatori spiccano su tutti per la correttezza del loro atteggiamento in campo: Eben Etzebeth del Sudafrica, pronto a scusarsi con arbitro e avversario dopo un giallo, mai una parola o un’espressione del viso fuori posto; Aaron Smith della Nuova Zelanda, sempre col sorriso stampato. Vederlo sorridente con in braccio il proprio figlioletto a termine di una sconfitta così dolorosa, ecco, è un’immagine che fa bene a questo sport e che mi porterò dentro al cuore.

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