Ve lo ricordate Borges che dettava l’elenco dei Giusti che stanno salvando il mondo? Sì, dai: “Gli impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio agli scacchi, chi accarezza un animale addormentato, chi è contento che sulla terra ci sia Branduardi…” Ecco, se vi ricordate Borges meglio di me è perché non eravate venerdì sera a Noto ad ascoltare le confessioni del nostro Angelo, che in questi giorni di un’umanità sempre più furibonda ci ha proposto un quieto viaggio in luoghi che non frequenta più nessuno, dalle parti in cui i più ottimisti dicono risieda l’anima. Anche i pessimisti, tuttavia, si sono lasciati accarezzare da queste canzoni cantate piano, con l’ausilio di Fabio Valdemarin, musicista dal multiforme armamentario di strumenti: anche il migliore dei maghi ha bisogno di qualcuno che gli prepari i trucchi, non necessariamente dietro le quinte. Sul palco Branduardi sembra inizialmente sul punto di frantumarsi in polvere d’argento, lasciando sulle assi solo il famoso guscio della sua capigliatura. Forse mi è sembrato così perché il tempo dell’amore è finito. Adesso è il turno dell’odio e ciascuno deve fare a gara a dimostrarlo: a che serve un musicista che sembra vivere in un perenne Altrove? Serve a praticare piccoli atti di obiezione di coscienza, mi rispondo. Col trascorrere dei minuti Branduardi evoca gli spiriti, si allea con Yates, Francesco d’Assisi, Fabrizio De André, Esenin, i Vangeli apocrifi, le leggende giapponesi. Paga l’affetto del pubblico con il conio effimero delle note. In breve diventa il pifferaio che conduce un pubblico di settenni all’immancabile fiera dell’est dove, come sanno anche i sassi del Chiostro dei Gesuiti, un topolino mio padre comprò con tutte le conseguenze entrate nella storia della musica italiana.
Lento, ma preciso, imbraccia il violino e ce lo punta contro. Spara raffiche, ma non fa male, anzi. E lo sapeva bene Paganini che quello è lo strumento di Belzebù e alla fine chi ne conosce i segreti ti commuove con furti di monello, ti porta a guardare la Terra dalla Luna, ti ruba l’ombra, fa chinare il ramo più alto del ciliegio, ti guarisce. Per una sera, almeno.
Ti vogliamo bene, diavolo d’un Angelo.