Ci sono due domande che girano nelle teste e nei social network da quando i CCCP hanno annunciato la loro reunion e la data berlinese (che poi sono diventate tre): qual è il motivo, e qual è il senso di una reunion di una band come i CCCP?
I motivi possono essere tanti e, visto che nessuno – a parte Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur, può saperlo – ognuno sceglierà i suoi.
Il motivo che ho scelto io è che siamo esseri umani, invecchiamo e lo facciamo in tanti modi. Ci guardiamo indietro, guardiamo a quello che abbiamo fatto e abbiamo vissuto, ai momenti in cui abbiamo costruito qualcosa di grande, e che ci hanno fatto sentire vivi, veramente e profondamente vivi.
Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur lo hanno certamente fatto in quei sei anni in cui la band ha stravolto e sconvolto la scena musicale italiana. Credo sia un loro diritto, come di chiunque altro essere di passaggio su questa terra poter rivivere la propria grandezza, raccontandola in una mostra o riprendendosi l’abbraccio di chi gli ha voluto bene in quegli anni.
Questo motivo è l’essenza del perché io, e moltissimi altri insieme a me, come me, abbiamo preso un volo e siamo venuti a rivedere queste quattro persone adulte, abbracciarle, dirci che la rivoluzione riescono a farla veramente solo poche generazioni e che siamo invecchiati come abbiamo potuto e voluto ma che, nel profondo, ci vogliamo ancora bene.
Ovviamente un motivo possono anche essere i soldi ma, siamo o non siamo gente di mezza età che ha dovuto buttare nel cesso praticamente tutti i propri ideali e iniziato a dover pagare i mutui e le bollette?
Sul senso di una reunion di una band come i CCCP invece le risposte potevano arrivare solo su quel palco, soprattutto per la terza data di questo minitour berlinese, che poi è diventata la prima.
Per questo serve mettersi d’accordo su cosa siano stati veramente i CCCP.
Per chi ha visto nei CCCP una band punk nel senso più didascalico del termine, che faceva canzoni con tre accordi, che si cotonava i capelli e urlava qualche slogan cattivo, allora questa reunion poteva avere pochissimo senso, e ancora meno senso poteva avere se qualcuno vedeva in loro una specie di “braccio armato musicale” del comunismo.
Ma i CCCP non sono mai stati nessuna di queste due cose, perché sono stati soprattutto una band concettuale, che non aveva paura di suonare cose che erano lontanissime dal punk, che poteva decidere di suonare un tango o una mazurca, fare una ballata electro o una cover commerciale in chiave electro, risultando comunque sempre coerente con sé stessa o avere una sua logica.
Ma i CCCP sono stati qualcosa che è andata molto oltre la musica, sono stati un teatro dell’assurdo e, soprattutto, degli agenti del caos; d’altra parte cosa si può leggere in un gruppo che ha deciso di abbracciare l’estetica filo-sovietica come contrapposizione all’estetica e alla cultura filo-americana che in quegli anni stava invadendo la nostra società?
Sono stati l’avanguardia (spesso per un pubblico di merda, come diceva quel genio di Freak Antoni), sono stati dei troll molto prima che sapessimo cosa fossero i troll, oltre a essere un gruppo pre memetico, molto prima che i meme esistessero (cos’era Amanda Lear in una band punk o l’avere un vitello grasso se si è un figliol prodigo d’altronde?).
La risposta a questa seconda domanda è stata quella che, a un certo punto del pomeriggio ha iniziato a rendere più nervosi i nostri sguardi, a farci bere qualche birra in più e a farci chiedere “non è che abbiamo fatto una cazzata?”.
Dentro di me avevo fatto una scommessa, avendo da sempre considerato quei quattro dei geni, ma soprattutto avendo considerato Ferretti il più grande intellettuale della musica italiana; intellettuale inteso come persona che non ha mai ceduto un centimetro al pensiero e che ha costretto ognuno di noi a farlo, che non ha mai avuto paura di dire quello che pensava, anche quando diceva cose non facilmente condivisibili (e negli ultimi anni questa cosa è successa tantissime volte). Scommettevo che avrebbe saputo trovare il giusto senso a questo ritorno.
Dentro di me avevo questa certezza, ma quante certezze granitiche si sono andate a schiantare contro degli iceberg? Quante certezze sarebbero rimaste in piedi dopo aver saputo che ci sarebbe stato anche un monologo di Andrea Scanzi?
Queste certezze hanno vacillato ogni minuto di più mentre ci avvicinavamo all’Astra Kulturhaus Berlin, mentre il tedesco veniva mano a mano sostituito dall’italiano, e ti sentivi sempre meno a Berlino e sempre più, che so, a Bologna.
Dal momento in cui ho messo piede lì dentro e sono finito in questo non-luogo, che non era Italia ma che non era neanche Germania, è iniziata una serata assurda, completamente assurda, ma bellissima.
Alla fine ho vinto la scommessa.
Dopo l’assalto al bancone del merchandising (un po’ imbarazzante a dire la verità, ma anche io volevo la mia maglietta da concerto e quindi ecco), il concerto inizia con venti minuti di italianissimo ritardo e parte con Depressione Caspica, leggermente più lenta dell’originale, senza il basso di Maroccolo sparato a volumi da soundsystem ma con la stessa cadenza dub che ci fa ondeggiare subito e, quando inizia la strofa, iniziamo tutti a cantare in quel modo liberatorio che mi fa dire che sì, il motivo era quello giusto, eravamo lì per abbracciarci come vecchi amici che si sono voluti e che si vogliono ancora bene, nonostante tutto.
Nota di merito al tipo dietro di me che, alla fine della canzone, storpia il testo in “in un’attesa a piedi, Scanzi” che coglie bene il senso di molte cose di quel momento.
Anche la paura che suonino pochissimo sfuma con il passare del tempo visto che suoneranno per circa due ore, con una pausa in cui manderanno il video di Tomorrow e un’altra prima dei bis.
Tutto va molto oltre le mie migliori aspettative – che ammetto fossero scese piuttosto in basso poco prima di arrivare lì – ma rimane ancora l’ombra di Scanzi che aleggia su quella serata.
Quell’ombra si materializza prima di Emilia Paranoica, dice un paio di cose per presentare quel pezzo che nessuno capisce perché è da subito fischiatissimo e insultato. Io forse lo insulto ma poi me ne pento, alla fine non è colpa sua se Ferretti lo ha chiamato su quel palco e che, infatti, resta lì con lui, si abbassa e risponde ai gesti e agli insulti del pubblico.
Delle parole di quel breve monologo non resta nulla se non la sensazione di aver assistito a una scena surreale, e in qualche modo liberatoria, abbiamo mandato affanculo Scanzi e Ferretti ha mandato affanculo noi, ha preso il microfono e ci ha ricordato che lui (loro) sono sempre stati pronti a prendersi dei fischi e, soprattutto, che “non sono come tu mi vuoi, non sono come tu mi vuoi, non sono come tu mi vuoi”.
Partono gli applausi, parte Emilia Paranoica e ha vinto ancora lui, come sempre.
Non ho mai assistito a una scena del genere in un contesto del genere e penso di averci trovato il coup de théâtre che mi aspettavo da loro che, in qualche modo, ha dato ancora più senso a quella cosa.
Il concerto continua con un po’ tutto quello che ti aspetti, compresi alcuni testi che Ferretti cambia per avvicinarli al suo sentire (su Radio Kabul e Punk Islam), mancano forse solo Io sto bene, Live in Pankow e Mi ami, ma ci sono due cover che invece non mi aspetto, Bang Bang di Dalida e Kebabträume dei Deutsch Amerikanische Freundschaft in cui canta anche Zamboni. Chiudono con Ferretti che canta Amandoti a cappella, con tutto il pubblico a seguirlo.
Il finale è commovente e sento che la commozione finale è sincera, Ferretti canta il testo di Cccp, il pezzo di apertura di Affinità e divergenze, urliamo “Fedeli alla linea”, “Cccp”, “Sssr” e ce ne andiamo commossi anche noi.
Non so come andrà il tour, ho molti dubbi che si possa replicare tutto quello che è successo ieri, non ci sarà Berlino fuori da quel locale, non ci sarà l’attesa per Scanzi e molte altre cose, ma per quanto mi riguarda è stato bello, anzi bellissimo, esserci.